La giornata è limpida, Varenne alla finestra osserva un gruppo di bambini che gioca in strada appresso a un pallone. Lo scopo del gioco è calciare avanti la palla e poi correrle dietro per essere i primi a calciarla di nuovo. E altri bambini in crocchio disegnano rettangoli sull’asfalto con grossi gessi colorati. Varenne massaggia il petto, come ad assicurarsi che il cuore ci sia ancora. Si accorge che i bambini che disegnavano rettangoli sono ancora là. Adesso ci saltano dentro, qualche volta a piedi uniti, altre volte in equilibrio su un piede. Quelli che inseguivano il pallone invece sono scomparsi. Gli torna in mente quante volte ci ha giocato con la palla. Toccarla per primo, spingerla più avanti possibile e correre a perdifiato per precedere tutti e toccarla di nuovo, e di nuovo, e di nuovo. Varenne pensa all’eterna primavera dei bambini, alle giornate più lunghe, più lente, al mondo disteso davanti. La donna apre la porta. Intorno al collo ha una sciarpa vivace, tirata su ad avvolgere la testa. Una ciocca di capelli rossi fugge sulla fronte. Varenne porta la mamma sulla sedia, fin là al tavolo. Che ventaccio, dice, mentre si toglie gli occhiali scuri e si scuote la polvere di dosso. Adesso ci mettiamo comodi, dice rivolto alla mamma, mentre volge il fazzoletto che le copre il capo. La donna ha posato sul tavolo il giornale. Un trafiletto nelle pagine di cronaca riporta di un negoziante che s’è impiccato tra gli scaffali della sua merceria. Varenne rivede il merciaio penzolare. Gli occhi sbarrati sono gli stessi di Fabio, ha le stesse labbra livide, lo stesso naso largo e carnoso, gli stessi peli neri che spuntano dalle orecchie. Tutte le volte che la parola suicidio è pronunciata, nella mente di Varenne si materializza il volto di Fabio. Lo zio dice che questa cosa ha un nome. Si chiama antonomasia.
– Giovanni Marilli –