La differenza tra me e gli altri è che io ho sempre preteso di più dal tramonto. Colori più spettacolari quando il sole incontra l’orizzonte. È questa la mia unica colpa. Ci sono parti del mio corpo ancora doloranti dalla prima volta in cui ho sradicato la mia autostima, l’ho guardata dritta negli occhi e l’ho fucilata. Dopo aver conseguito il diploma di scuola media, feci il mio ingresso all’istituto d’arte dove trascorsi cinque anni in assenza di vita. Il mio approccio allo studio era diventato fallimentare, mentre la mia naturale predisposizione al disegno si sgretolava come terra inaridita. Durante le lezioni di discipline pittoriche, la tela con cui avrei dovuto distinguermi per genio e per eccellenza rimaneva incolore. Cercavo negli sguardi dei miei compagni la complicità che mi avrebbe salvata, ma la risposta che ottenevo era il fragore, la deflagrazione insopportabile delle loro pennellate. Ero costretta a saltare le ore di matematica e fisica, poiché nel momento in cui varcavo la soglia dell’aula, i miei polmoni cedevano alla pressione; mi rifugiavo nei bagni, gettavo l’Eastpak a terra e abbrancavo il sacchetto di carta che nascondevo nella tasca dei jeans, affondandovi la bocca, il naso e le mie vergogne. I giorni si frantumavano sopra la mia testa, sotto i piedi, tutt’intorno. Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave, in un caffè di Parigi, a Shanghai, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica. Attendevo il permesso di lasciare questo corpo, di sapere quale strada percorrere per ricacciarmi dentro l’utero. La bestia che mi portavo dentro si sviscerava al crepuscolo, quando mettevo a macerare il mio appendice nella vasca da bagno. Ha ululato e graffiato le mie carni dalla testa ai piedi, ha martoriato i miei capezzoli, ha strappato i miei capelli mettendoli in fila uno a uno come fossero aghi di pino e si è inabissata fino a mescolarsi come un cocktail nell’inchiostro della notte.
– Elisa Pomaran –