Quando a Mohole abbiamo inventato il Nothing Day avevamo le idee molto chiare su cosa non dovesse essere.
Non doveva somigliare a una fine, perché era semmai una transizione: un momento ancora in atto, a cui era necessario assistere. E non doveva essere una competizione, piuttosto un confronto: uno spazio per guardarsi così a fondo da immergersi gli uni negli altri, per creare nuovi strati. Soprattutto, però, non doveva pretendere di essere “tutto”. Perché il tutto, in confronto a quello che resta fuori, è un confine fin troppo stretto.
La cosa più sensata che restava da fare, allora, era nominare quel “non”, per dargli un significato. E dargli anche una data, per renderlo reale.